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Dal Mahatma Gandhi all’intuito…

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…per arrivare alla scrittura

Conoscete il detto “scherza con i fanti, ma lascia stare i santi”? Ecco, in un certo senso oggi scherzerò con i santi, ma lo farò con rispetto, se non con reale competenza. Qualche tempo fa ho infatti letto con grande interesse l’autobiografia di Gandhi, titolo inglese An Autobiography – The Story of My Experiments with Truth. Mi ero infatti accorta che la notorietà universale di un personaggio di questa portata può restare, come nel mio caso, del tutto vuota: pur avendo sentito il suo nome mille volte, di lui non sapevo quasi nulla.

Mohandas Karamchand Gandhi (Porbandar, 2 ottobre 1869 – Nuova Delhi, 30 gennaio 1948), è stato un politico, filosofo e avvocato indiano. È comunemente noto con l’appellativo onorifico di Mahatma, letteralmente “grande anima”, ma traducibile anche come “venerabile”, e per certi versi correlabile al termine occidentale “santo”.
Gandhi è stato uno dei pionieri e dei teorici del satyagraha, la resistenza all’oppressione tramite la disobbedienza civile di massa, che ha portato l’India all’indipendenza. Il satyagraha è fondato sulla satya (verità) e sull’ahimsa (nonviolenza). Con le sue azioni, Gandhi ha ispirato movimenti di difesa dei diritti civili e personalità quali Martin Luther King, Nelson Mandela e Aung San Suu Kyi.
(fonte: Wikipedia)

Potevo scegliere, per uscire dalla mia ignoranza, una biografia oppure la sua autobiografia. Optando per la seconda, forse ho sacrificato una visione più obiettiva e contestualizzata della sua vita e delle sue opere; in cambio ho sentito la sua diretta voce – esattamente quello che cercavo.

Prima di tutto, solita nota di demerito per chi ha scelto di rendere in italiano il titolo originale An Autobiography – The Story of My Experiments with Truth con La mia vita per la libertà. L’autobiografia del profeta della non-violenza. Parlando di un’autobiografia, mi sembra che il titolo originale andrebbe rispettato in quanto deciso dall’autore; ma in particolare mi incuriosiscono le motivazioni dietro questa scelta: la vita per la libertà e gli esperimenti con la Verità si somigliano ben poco, soprattutto alla luce del libro.

Mohandas Karamchand Gandhi

Come spesso succede, noto che noi italiani siamo molto ingessati nel parlare di tutto ciò che è religione, spiritualità, misticismo, rapporto con il divino (per me sono tutti la stessa cosa, espressa in modi diversi). Mi sembra che lo si faccia con rilassatezza soltanto in contesti specifici, quasi mai en passant, parlando normalmente di vita. Per questo nel mio commento all’articolo di Barbara Businaro Un sassolino da Dio dicevo che la parola “Dio”, scritta così, papale papale, al di fuori di un contesto specifico, è di una potenza rivoluzionaria.

Per fare un esempio, negli Stati Uniti numerosi cantanti e gruppi famosi inseriscono nei loro testi pensieri sul rapporto con il divino, oppure lo rendono centrale nei loro brani. Mi sembra che qui da noi succeda di rado, spesso in modo velato e interpretabile in altra chiave (es. i pensieri verso il divino sono anche leggibili come pensieri verso una donna).
Se siete curiosi, ecco tre brani che trattano questo tema:
Thousand Foot Krutch – Be Somebody
Imagine Dragons – Believer
NF – Oh Lord            

Ma torniamo a Gandhi. Il suo intento nello scrivere la propria autobiografia è quello di raccontare il suo percorso di ricerca della Verità attraverso le scelte che ha incontrato. Non gli interessa romanzare gli avvenimenti, né esporli in modo piacevole per il lettore. Se le persone a lui vicine non gli avessero chiesto di raccontare la sua vita, per sua stessa ammissione non lo avrebbe fatto. Dal suo punto di vista, aveva cose più importanti da fare.

Non è stata sempre una lettura leggera, un po’ per l’abbondanza di date e complicati nomi indiani, un po’ perché Gandhi affronta il racconto della sua vita dalla nascita al 1921 con pignoleria degna di un ragioniere. Inizialmente l’assenza di toni ispirati e frasi illuminanti mi ha lasciata perplessa, ma procedendo nella lettura ho capito che proprio quell’assenza esprimeva pienamente l’autore.

Gandhi conduceva i suoi “esperimenti con la Verità” in ogni settore della vita, dall’alimentazione ai rapporti familiari, dalla professione di avvocato ai tentativi di aiutare il prossimo, dall’igiene personale alla gestione della casa, in modo meticoloso e attento, senza lasciare niente al caso. Lo faceva con una tenacia che sconfinava nella rigidezza, almeno dal punto di vista di noi comuni mortali. Vivergli accanto non doveva essere facile, eppure tutti lo seguivano con entusiasmo anche nelle sue avventure più gravose, dal lavoro duro alla prigione. Credo che il suo quieto carisma fosse travolgente, anche se invisibile a lui stesso, o forse volutamente ignorato.

Non voglio riassumere qui il contenuto del libro. Trasmetterei in modo impreciso il messaggio, e riuscirei sicuramente ad annoiarvi. Invece vorrei pescare uno tra i tanti spunti di riflessione emersi dalla lettura per condividerlo con voi.

Nel sentire Gandhi raccontare i fatti della sua vita, colpisce la semplicità con cui gli eventi si sono concatenati, senza forzature e quasi senza intenzione da parte sua. A sentirlo parlare, sembra che gli effetti prodotti dal suo transito nel mondo siano stati frutto del caso! Ovviamente non è così. Gandhi aveva idee e progetti per il futuro, come tutti. A fare la differenza era la sua disponibilità ad abbandonarli senza esitare quando la Provvidenza gli rimescolava le carte. Lo ripete spesso nel testo: “avevo in mente di…, ma il destino mi portò altrove.” Gandhi non riteneva di dover scegliere razionalmente cosa meritasse la sua attenzione incondizionata e il suo tempo. Suona strano, quasi assurdo, non è vero?

Eppure il pensiero razionale, tanto prezioso in mille ambiti, mostra i suoi limiti in altri. Soprattutto diventa un intralcio, invece che un aiuto, quando ci allontana dalla percezione delle correnti – non saprei come altro definirle – che muovono tutte le cose in determinate direzioni, indipendentemente da noi e dai nostri intenti. Se non siamo attenti, se non avvertiamo queste correnti e ignoriamo i segnali che ci inviano, finiamo con il remare controcorrente. Faticoso, e spesso inutile.

La spinta al controllo c’è in tutti noi, anche se non tutti siamo dei control freaks. Ma esiste una via di mezzo tra l’abbandonarsi di Gandhi e il nostro porre sul piedistallo la razionalità che progetta, corregge, forza, e in definitiva manca di ascolto?

Sviluppare l’intuito: credo che questa sia la via di mezzo, per noi comuni mortali. Giulia Mancini, nel suo post Fatica decisionale tra il dire e il fare, segnalava quanto a volte sia difficile prendere decisioni, anche banali. Non posso darle torto, visto che capita anche a me di arrovellarmi per ore su scelte tutto sommato sciocche. Nel mio commento ipotizzavo che parte della difficoltà nascesse dal non allenare abbastanza l’intuito, o dal confonderlo con l’istinto.

In comune, istinto e intuito hanno solo una certa velocità nel manifestarsi e il fatto di operare in gran parte al di fuori della consapevolezza. Le somiglianze, però finiscono qui.

L’istinto ha come obiettivo la nostra sicurezza. In altre parole, mira a porci in posizione di vantaggio in ogni situazione. Deriva dal nostro retaggio animale. Per quanto ho potuto osservare, a mobilitarlo è sempre la paura di ciò che accadrebbe, o potrebbe accadere, se.

Essendo legato al timore, l’istinto è mantenuto in buona forma dalla mia capacità di crearmi da sola fantasmi e preoccupazioni. La sua voce si fa sentire subito, potente, per convincermi che dovrei abbandonare l’idea appena nata per i motivi più diversi, presto confermati dalla ragione: quello che sto pensando di fare è faticoso, non mi porterebbe vantaggi, può essere malvisto dalle persone, non c’entra niente con il mio percorso fino a oggi, eccetera.

La visione dell’istinto è ristretta, spesso gretta. Mi spinge a trattenere e ad accumulare, mi rende egoista, mi fa serbare rancore. Mi mostra un universo dove è la scarsità a regnare, e non l’abbondanza. Se non mi accaparro tutto quello che posso, qualcuno me lo sottrarrà…

L’istinto è legato alla sopravvivenza e vede minacce ovunque. Non guarda oltre il concreto e l’immediato, né sa inventare o creare. Mi fa scansare in fretta per non essere investita da un’auto, mi fa prendere al volo un oggetto fragile prima che cada a terra, ma non posso chiedergli di svolgere funzioni più complesse. Per l’istinto va tutto bene così com’è; se per caso non va bene, è il momento di sgomitare per di posizionarsi meglio.

L’intuito è diverso.

Fa valutazioni fulminee, rese possibili da una visione globale che non necessita di ragionamento. Le sue idee originali e coraggiose spesso mi spaventano a morte. Cerca di farmi gettare il cuore oltre l’ostacolo e di ampliare poco alla volta i miei confini del possibile. Fa appello a mie caratteristiche che spesso non so di avere (e continuo a ignorare, se non lo ascolto).

Sembra uno scommettitore esperto, ma ho il sospetto che riceva soffiate da qualcuno che conosce il gioco. Non si cura di cose considerate importanti come il tempo, la riuscita, il denaro, gli obiettivi. Per questo la sua utilità nel quotidiano è sottovalutata, ma provate a domandarvi quante volte vi è capitato di dire: “se solo avessi dato retta a quella prima impressione…”.

L’intuito mi fa sentire quando sto camminando nella direzione giusta. Questo non significa che arriverò dove desidero. A posteriori, però, sarò contenta di avere agito come ho agito, per motivi che a volte non avrei mai potuto immaginare.

Spesso chiamo l’intuizione “lucina”. Quando ignoro la lucina che si è accesa, di solito mi ritrovo scontenta. Ho avuto una possibilità e l’ho respinta per freddi motivi. Non ho corso un rischio, dando ascolto all’istinto e alla ragione (che è ben capace di prostituirsi!), ma adesso mi sento ferma. Sono tranquilla, non soddisfatta. Le cose possono riuscirmi bene, ma si arenano subito. Non hanno ali per volare.

C’è soltanto un problema con l’intuito: parla a bassa voce, e spesso la sua voce è sovrastata da quella dell’istinto. Bisogna allenarsi per imparare a ricevere i suoi messaggi.

È facile, di fronte a una situazione, reagire d’istinto e poi usare la ragione per giustificare la propria reazione; lo stesso di fronte a una scelta. E l’intuito, ha detto la sua? Di solito sì, ma la voce dell’istinto ha parlato più forte. L’unica traccia che rimane dell’intuizione ignorata è un lieve, incomprensibile senso di disagio.

Cosa c’entra questo con la scrittura?

Per me la scrittura c’entra con tutto, e viceversa. Mi è capitato di compiere scelte razionali, anche se le sentivo sbagliate, per motivi che non ho voluto indagare. Male! Il vecchio modo di concepire il mio percorso mattoncino su mattoncino è stato spesso vissuto dall’interno di una bolla in cui i suggerimenti dell’intuito non arrivavano affatto.

Mantenere il ritmo di lavoro che avevo deciso quando non c’era la situazione giusta, tentare una forzatura a scopi promozionali quando non la sentivo mia, pubblicare di fretta perché lo avevo stabilito prima di una valanga di imprevisti… Niente di grave, insomma, ma anche se con queste forzature non mi sono creata un vero danno, ho certo faticato più del dovuto per arrivare allo stesso punto in cui sarei arrivata assecondando la corrente, invece di contrastarla.

Dopo tutto questo filosofeggiare, una bella notizia per il mio Cercando Goran: Amazon ha inserito l’ebook nelle sue Offerte del Mese di marzo, io ci ho unito uno sconto sul cartaceo, ed ecco il risultato:
ebook a € 1,50 anziché € 2,99
paperback a € 10,30 anziché € 14,56
Se non avete ancora letto questo thriller/mystery che ha incontrato il favore di molti lettori, oppure se avete qualche regalino da fare, questa è una buona occasione.

15 commenti

  • Marco

    Ma le “visioni” che ho quando inizio una storia fanno parte dell’intuito, vero? Vero?? ????
    Di sicuro non c’è nulla di razionale nelle mie storie, nel senso che hanno poco (o pochissimo) seguito proprio perché non pianifico nulla. Non mi metto mai a pensare: “Adesso scrivo una storia così e cosà”. Non l’ho mai fatto e non lo farò mai. D’altra parte quando un archeologo si mette a scavare, non sa che cosa troverà: una tomba oppure solo un vecchio muro di una antica abitazione. Non può pianificare nulla, sa solo che lì c’è qualcosa che potrebbe essere interessante. E chi scrive ha a che fare con l’archeologia, secondo me.

    • Grazia

      Le tue visioni vengono certamente dall’intuito! E devi averle intuite fortemente, perché le hai trasmesse anche a me, in particolare con L’ultimo dei Bezuchov. “In particolare”, non perché i tuoi racconti siano qualitativamente inferiori, ma perché amo i romanzi più dei racconti. Con i tuoi nuovi romanzi in arrivo, a fine anno e oltre, sarò a nozze.

    • Grazia

      Il tuo approccio mi ricorda quella della Gabaldon, che vede un filo e tira per scoprire cosa c’è attaccato. Che è esattamente quanto sto facendo anch’io al momento, con gusto.

  • Luz

    Uomo immenso e grande esempio. A scuola è uno di quegli argomenti che sai affronti perché oltre a fare parte del programma in sé, possono aprire a mille altri spunti.

    • Grazia

      Davvero! Mentre leggevo mi rendevo conto dello spessore di quest’uomo, e ho capito perché Einstein ha detto di lui: “Le future generazioni difficilmente potranno credere che qualcuno come lui sia stato sulla terra in carne e ossa.”

  • Barbara

    Grazie per la citazione, che sassolini di Dio e lucine potrebbero anche avere un collegamento, a noi sconosciuto.
    Di Gandhi anch’io so molto poco, quello che dicono i libri di Storia a scuola o qualche articolo qua e là. So che ha studiato a Londra, perché comunque non era nato in una famiglia povera. E so che ha trascorso un po’ di giorni in Italia ai tempi di Mussolini. Per qualche tempo fui anche convinta che Sonia Gandhi fosse sua diretta discendente, invece il cognome l’ha ereditato dal marito, che cambiò cognome in memoria proprio di Gandhi – quello vero (una piccola strategia di marketing politico?!). Non sapevo di questo suo essere così rigoroso, ma forse le sue lotte richiedevano una tenacia incredibile.

    • Grazia

      Era rigoroso di suo, anche lotte a parte. Pensa che dopo di lui, anche sua moglie e suo figlio – allora un bambino sugli otto anni – avevano fatto giuramento di essere prima vegetariani, poi vegani. Quando i due si ammalarono di non ricordo cosa e il medico disse che non si sarebbero salvati se non avessero mangiato carne, o almeno bevuto brodo di pollo, loro (mamma e bambino) dissero che accettavano di morire, e Gandhi fu d’accordo. Poi per fortuna non morì nessuno, forse perché il medico era stato un po’ estremo nella diagnosi, forse per via di sassolini e lucine…

  • Giulia Mancini

    Grazie di avermi citato, quasi non ricordavo più quel post che avevo scritto. La fatica decisionale tra istinto, intuito e imprevisti. Proprio in questi giorni di “sindrome da coronavirus” mi è capitato di pensare a una serie di programmi saltati o slittati, inutile dire che lo spettro del virus fa diminuire la determinazione per perseverare sui progetti in cui credi e ti stai impegnando, almeno questo è quello che succede a me. Tra l’altro non ho smesso di lavorare un solo giorno e quindi il tempo è sempre limitato come al solito…
    Gandhi è stato davvero grande nell’affermare la non violenza, lo conosco solo attraverso il film sulla sua vita, sarebbe interessante leggere questa sua autobiografia, anche se ormai sono indietro con tutte le letture, ma chissà.

  • Marina Guarneri

    Un filosofeggiare il tuo molto interessante: a parte l’opinione personale su Gandhi, grande uomo, unico direi, mi è piaciuta la disquisizione su istinto/intuito. Il mio istinto, per esempio, è garibaldino: è portato a eroiche imprese, ma con spirito temerario; con l’intuito me la cavo meglio: complice il mio equilibrio caratteriale, ho percezioni che posso assecondare senza pormi il cruccio se siano corrette oppure no, perché sono sempre molto moderate, in fondo. Però, ogni tanto, mi piacerebbe essere inseguita da guizzi fulminanti!

  • Elena

    Bel ragionamento intorno a istinto e intuito, grazie. Credo di possedere entrambi ma non avevo mai spinto così in là la loro disanima, piuttosto mi muovo lasciando che queste parti non razionali si epsrimano e di solito, mi va alla grande.
    Della vita di Ghandi e di tutta la filosofia e il prezioso quanto antico sapere orientale, la questione del lasciar andare è quella che mi interessa di più.
    Lo ripete spesso lo stesso Ghandi nella sua autobiografia: “avevo in mente di…, ma il destino mi portò altrove.” Gandhi non riteneva di dover scegliere razionalmente cosa meritasse la sua attenzione e credo facesse bene. Ciò ch enoi rediamo giusto si incrocia con ciò che credeno giusto gli altri. E gli altri sono davvero in buon numero là fuori… Accettare di essere parte di un tutto che si muove non in autonomia ma in relazione a tutti gli esseri vienti, noi compresi. Questo è il messaggio che amo di più della sua vita, che ebbe il merito di essere non filosofia ma vivace testimonianza. Proprio ciò che manca oggi.
    Sulle traduzioni dall’inglese all’italiano mi taccio…

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