Raccontare storie è un gioco… di parole
Noi giocolieri trattiamo una materia delicata.
Lo scrittore è una persona cui importa cosa significano le parole, cosa dicono, come lo dicono. Gli scrittori sanno che le parole sono la loro strada verso la verità e la libertà; per questo le usano con cura e attenzione, con timore e piacere. Usando bene le parole, rafforzano le loro anime. Poeti e narratori passano la vita ad apprendere la tecnica e l’arte del buon uso delle parole, e le loro parole rendono le anime dei lettori più forti, più luminose, più profonde.
(Ursula Le Guin)
Mi sembra che le parole – appunto – di Ursula Le Guin introducano bene l’argomento di questo post. Tutti noi che scriviamo maneggiamo parole, le usiamo come mattoncini per costruire la realtà delle nostre storie, dal carattere dei personaggi all’ambientazione, dai dialoghi agli eventi della trama. Anche se a volte possiamo temere che la storia che stiamo scrivendo sia già stata raccontata, in realtà non può essere così: qualunque “copia”, più o meno simile alle altre, porta il marchio distintivo dell’autore. In questo senso nessuno dovrebbe considerarsi privo di originalità.
Quando iniziamo a scrivere le parole sono solo fino a un certo punto nostre alleate. Sono irregolari, spesso si incastrano malamente. Si nascondono proprio quando abbiamo bisogno di loro. Qualche volta invece si combinano miracolosamente bene, e allora abbiamo proprio la percezione della qualità di ciò che abbiamo scritto, fosse anche un’unica frase perfetta. Ci domandiamo: l’ho scritta io? E prima ancora: come l’ho concepita? Perché il processo, anche a volersi mantenere terra terra – cioè a vedere solo una faccia della medaglia – è tutt’altro che afferrabile.
Scrivendo tanto e leggendo tanto – i soliti due pilastri – nel tempo le parole diventano più maneggevoli, si lasciano combinare senza ribellarsi. Non dobbiamo più lottare tanto per trovarle ed esprimere ciò che abbiamo in mente. Quando abbiamo la necessità o il desiderio di sostituirle, trovare alternative diventa facile, quasi un gioco.
Quasi. Persino quando con le parole si gioca, per divertire se stessi e i lettori, scrivere non è una sciocchezza. Le parole influenzano la realtà, la modificano attivamente.
Le storie che raccontiamo ai bambini lasciano un segno su di loro, ma anche quelle che leggiamo da adulti ci cambiano. Non ho dubbi sul fatto che dopo avere letto un libro siamo impercettibilmente diversi da come eravamo prima, a meno che la lettura non sia stata così stupida e inutile da non riuscire nemmeno a scalfirci. Succede, ma non è proprio la norma, se non leggiamo libri scelti a caso.
Le parole entrano in noi e ci cambiano dall’interno. Non siamo del tutto protetti dal loro effetto, cosa che da un lato è un bene, perché ci permette di usare le parole per crescere; d’altra parte ammettere in noi parole “sbagliate” può trattenere la nostra crescita, oppure indirizzarla dove non vogliamo andare. Non voglio fare un discorso banale del genere “i ragazzi che giocano a videogames di guerra diventano aggressivi”. Queste semplificazioni da bar non hanno significato. Però non ha nemmeno senso accettare che le parole vengano usate per guarire, come accade in molte psicoterapie, ma credere che non possano causare danni.
A questo proposito, mi viene in mente quante volte ho sentito dire, parlando di erbe curative: “uso le erbe perché non fanno male”, intendendo con questo che non hanno effetti collaterali. Se fosse davvero così, come potrebbero funzionare? Anche se le cure erboristiche presentano minori rischi rispetto ai medicinali allopatici, possono comunque esistere controindicazioni e combinazioni sconsigliate.
Lo stesso vale per le parole. Non vanno ingoiate senza criterio, solo per passare il tempo. Bisogna distinguere tra quello che ci fa bene, quello che non ci turba e quello che ci disturba. In questo senso apprezzo molto il fatto di essere diventata più libera nel leggere: se un libro mi sembra tempo perso o peggio, lo abbandono senza problemi. A volte mi domando se non sono diventata troppo frettolosa o superficiale; in fondo anche l’autore ha bisogno di spazio per potermi prospettare la storia. Alla fine, però, ho quasi sempre l’impressione che la mia scelta di pancia sia giusta.
Considerare le parole soltanto per quello che sono dal punto di vista materiale, segni o suoni convenzionali dal significato semplice e univoco, non rende loro giustizia. Sarebbe come utilizzare esclusivamente il vocabolario della ragione, che invece si trova in difficoltà a cogliere le diverse dimensioni, la magia, i miracoli. Utilizzare un termine al posto di un altro può fare confluire nella frase e nella storia atmosfere e profondità impreviste. Ogni parola ha conseguenze e costituisce un atto creativo.
Non che per questo esistano parole “giuste” e “sbagliate”, divise da una bella linea verticale, tipo lavagna con i buoni e i cattivi (esistono ancora queste cose a scuole? Spero di no.). Dipende dalla persona e dal momento. Parole sagge, parole divertenti, parole affettuose, possono essere altrettanto azzeccate di parole irose, assertive, persino violente.
Se presto attenzione alle mie impressioni, mi accorgo di come reagiscono il mio corpo e il mio spirito a ciò che leggo. Mi sento carica di energie o svuotata? Sono triste di una tristezza buona, oppure cattiva? Non vedo l’ora di riprendere in mano il libro, o invece tergiverso e sono quasi tentata di iniziare un altro libro, con la scusa di alternarlo al primo?
Quando decido di proseguire la lettura nonostante i segnali negativi – perché lo faccio, a volte – alla fine è come se il libro non lo avessi letto affatto: mi ero già chiusa a quella lettura, e il fatto che i miei occhi abbiano scorso le righe fino alla parola “fine” non mi ha resa in alcun modo permeabile. Sono convinta che anche queste forme di autoprotezione istintiva siano importanti.
Pensiamo a quanto la nostra realtà personale, familiare e sociale sia definita attraverso le parole che non solo entrano in noi, ma anche escono da noi, in forma orale o scritta. Pensiamo a quali parole usiamo per parlare del mondo, di noi, con noi stessi. Le nostre parole scolpiscono la realtà, come dice giustamente Caroline Myss (QUI un suo video, per chi è interessato a conoscere questa mistica moderna. Ho parlato di lei anche nell’articolo Tre persone da conoscere).
Quante volte siamo stati feriti dalle parole altrui, oppure dalla mancanza di parole, ben diversa dal silenzio in cui ci espandiamo e di cui ci nutriamo?Quante volte abbiamo ferito gli altri con le nostre parole, magari senza accorgercene?
La comunicazione, in quanto transazione energetica, non è mai davvero neutra: attraverso le parole che scegliamo doniamo energia all’interlocutore, oppure gliela sottraiamo. In definitiva, è una questione di potere. Senza questo scambio, che avviene anche quando parliamo a noi stessi, non c’è vera comunicazione.
Le parole possono spiegare, elevare, ferire, manipolare, divertire, informare, istruire, trasmettere, confortare, abbattere, calmare, incitare, ispirare, incoraggiare, alleggerire. Possono sbloccare un pianto liberatorio, che ci ripulisce. Possono aiutare noi e gli altri ad avere idee più chiare, a far uscire dal buio ciò che ha bisogno di essere portato allo scoperto, ad analizzare la realtà per comprenderla e modificarla, oppure accettarla. Possono aiutarci a immedesimarci negli altri e diventare più tolleranti e compassionevoli.
Potete trovare materiale interessante sull’argomento su I libri si prendono cura di noi, di Régine Detambel, di cui ho parlato anche nell’articolo Elogio della metafora.
Usare bene le parole, però, non è facile.
La nostra percezione della realtà è imperfetta fin dall’inizio, perché non siamo filtri puliti. Usando le parole per esprimerla operiamo un’ulteriore alterazione. Dobbiamo fare i conti con la nostra incapacità a trovare parole adatte, oppure con l’inadeguatezza delle parole stesse. Come si racconta un tramonto? Il fatto stesso che una delle parti abbia una sensibilità ridotta alle sfumature della parola rende la comunicazione zoppicante, a volte pericolosa per le sue possibili conseguenze.
Queste sono difficoltà inevitabili, e come tali vanno accettate. Non sempre, però, chi scrive le parole o le pronuncia ha a cuore l’interlocutore. Esistono parole vuote, un brusio di fondo che copre e confonde le parole utili, come esistono anche parole usate per manipolare il prossimo e presentare un’immagine distorta della realtà. Credo che in questo periodo di forzata convivenza con il coronavirus abbiamo avuto tutti modo di criticare i media – non tutti, non sempre – per la gestione delle notizie.
Lo scrittore di narrativa ha una sua piccola nicchia in questo ampio contesto; piccola, ma non per questo irrilevante. Inventare storie non è paragonabile al dover scrivere comunicazioni ufficiali che cambieranno i comportamenti delle persone, per fare un esempio, perciò possiamo evitare di maneggiare le nostre storie come se fossero bombe sul punto di esplodere, per fortuna. Lo stesso, al di là dell’abilità tecnica, ogni autore può svolgere il suo compito con onestà e con l’intento di mettere il meglio di sé al servizio del lettore. A volte ci capita di essere contattati da qualcuno che ha letto un nostro libro e vuole dirci che in qualche modo, con i nostri scritti, lo abbiamo fatto sentire meglio, oppure gli abbiamo aperto offerto una visione diversa della realtà. Non è poco!
Perciò non posso che essere d’accordo con le parole di Toni Cade Bambara.
Le parole vanno prese sul serio. Le parole mettono in moto la realtà; io l’ho visto. Le parole creano atmosfere, energie, campi elettrici; io l’ho percepito. Le parole congiurano. Per questo sto attenta a ciò che pronuncio, scrivo, canto. Scelgo con cura a cosa dare voce.
(Toni Cade Bambara)
NEWS!
Rinuncio ai bollettini per avvisarvi di qualcosa che molti di voi già sanno: Amazon ha indetto un premio letterario per gli autori che autopubblicheranno un libro con KDP tra il 1° maggio e il 31 agosto 2020. Se siete interessati – io lo sono! – trovate tutte le informazioni necessarie QUI.
Grazia Gironella, nata a Bologna, vive ai piedi delle montagne friulane ed è appassionata di natura e discipline orientali. Tra le sue pubblicazioni: La strada che non scegli (biografia); Cercando Goran (Searching for Goran in lingua inglese), Veronica c’è e Tutti gli amori imperfetti (romanzi); Tarja dei lupi e La pace di Jacum (racconti lunghi), e il manuale di scrittura creativa Nel cuore della storia.
22 commenti
Sandra
Ci sono romanzi in cui la cura per la ricerca delle parole è particolarmente evidente e se straniero il plauso va anche al traduttore (e all’editore che ha scelto e pagato il traduttore).
Altri in cui la storia regge, c’è, e ci soo tante altre cose sicuramente apprezzabili ma magari il lessico non è così efficace.
Grazia
Certo, c’è un po’ di tutto in giro. Non intendevo dire però che si debbano curare le parole in sé come degli invasati, quanto che si deve badare a ciò che si dice e a come lo si dice, perché c’è chi legge, e noi entriamo nella sua testa. Se poi le parole sono evocative, scelte con cura, beh, ottimo.
Giulia Mancini
È vero, le parole non sempre sono nostre alleate, per questo è importante usarle bene. Le parole possono essere dolci carezze oppure pietre che feriscono. Certo usare bene le parole non è certo facile, l’unica è fare il massimo per riuscirci (senza per questo paralizzarsi, però…)
Interessante il concorso di Amazon, vado a leggere i dettagli.
Grazia
Credo che voglia dire molto tendere verso un obiettivo, anche se poi non lo si raggiunge o lo si raggiunge soltanto in parte. L’intenzione crea già miglioramento, secondo me.
Elena
In questo periodo sento molte parole vuote. Al contrario penso che tutti abbiamo bisogno di parole vere, autentiche, sentite, con quell’energia che hai richiamato. Mi sento molto a mio agio con le parole da dire, per questo scrivo volentieri sul blog. Ma faccio fatica a usare l’immaginazione. Credo che si sia spenta, perché ciò che vedo e sento intorno è duro da digerire. Eppure, una via di fuga mi sarebbe tanto tanto cara…
Grazia
Non sempre la via di fuga si materializza quando serve, cara Elena. Forse, come dice Caroline Myss, la parola sacra di questo periodo è “endurance”. Speriamo venga presto il momento di altre parole, più libere e leggere.
Luz
Molto interessante questa riflessione, che contiene un principio innegabile: il peso delle parole, le parole hanno un peso.
La parola è una scoperta umana molto raffinata, se penso a come si è evoluta, a tutto il meraviglioso suo progredire… si resta stupefatti. La parola è anche un mondo molto difficile, quando si scrive il suo uso appropriato richiede uno sforzo sovrumano, quando si comunica altrettanto. Mettiamo continuamente in atto strategie adoperandola.
E lasciami dire che confrontarsi fra persone che hanno la passione della parola, è una cosa bellissima.
Grazia
Anch’io lo vivo come un privilegio. In questo senso la rete è portentosa, perché senza il suo aiuto avremmo possibilità molto ridotte di condivisione.
Marco
Le parole sono difficili perché in realtà sono deboli. Ecco perché bisogna imparare a usarle con la dovuta cura. E per riuscirci, probabilmente bisogna ascoltare tanto e apprezzare il silenzio.
Grazia
Sono più che d’accordo sulla seconda parte. Sulla debolezza delle parole, invece, ci sarebbe da parlare a lungo.
Maria Teresa Steri
Le tue riflessioni sono importanti soprattutto in questi tempi in cui la comunicazione è spesso troppo frettolosa, con un uso superficiale delle parole (e i conseguenti fraintendimenti). E invece il giusto uso parole ha un enorme peso sia nel bene che nel male, ovvero ti influenza molto, ti condiziona. Quando si tratta di narrativa, poi non c’è solo la parola adeguata al contesto, quella più adatta a esprimere un’impressione, ma anche quella che evoca la giusta atmosfera, che ti parla direttamente.
Per rifarmi ai tuoi esempi, capita anche a me di iniziare un romanzo e di avere una sensazione sgradevole, magari proprio per l’uso dei termini, del linguaggio. Ci sono autori per esempio poco colloquiali che sembrano porsi fin da subito come su un piedistallo, e altri che al contrario danno un’idea di sciatteria, e sono ugualmente fastidiosi. Non so se sono andata fuori tema rispetto al tuo post, però mi sembra che in entrambi i casi ci sia un uso inappropriato della parola come strumento per raccontare e quindi comunicare.
Grazia
In effetti anche queste caratteristiche spingono ad allontanarsi da un romanzo. Certe volte a spingerci via sono sentimenti negativi forti, a volte è quello che intuiamo dallo stile (la presunzione o la sciatteria, per esempio), ma è sempre un motivo fondato. La comunicazione povera trasmette impressioni povere, che il lettore non cerca.
Lisa Agosti
Grazia parteciperai al Kindle contest?
Grazia
Credo di sì, con il mio secondo YA, che è lì che aspetta la revisione finale con santa pazienza. A meno che rileggendolo non mi venga un mancamento. Con il nuovo romanzo sono alla prima stesura, a buon punto, ma sempre troppo indietro (credo) per riuscire ad averlo pronto in tempo. Tu hai qualcosa da far partecipare?
Barbara
Argomento controverso e difficile, proprio perché, come dice Marco, le parole sono “deboli”.
Dal punto di vista delle storie, le parole sono un mezzo di comunicazione primitivo tra la fantasia dello scrittore e la fantasia del lettore. Per questo si dice che in un romanzo, una parte è in mano al lettore e dipende da lui, dalla sua immaginazione, dal suo grado di immersione, da quanto la sua esperienza di vita trova affinità con le pagine narrate. Ci sono romanzi perfetti per alcuni e terribili per altri, ma le parole usate dall’autore sono esattamente le stesse.
Dal punto di vista delle persone, la questione diventa complessa. Perché ci sono le parole delle opinioni, dei giudizi e dei fatti. E il rischio di confondere le tre cose. Peggio ancora se la comunicazione diventa sterile di fronte ad uno schermo, senza il tono espresso dalla voce umana (in quanti modi diversi può essere pronunciata una parola a seconda dell’emozione di chi parla?) e la fisicità della persona, la cosiddetta comunicazione non verbale, dove i gesti aiutano chi ascolta a capire perché viene detta quella parola e in che modo interpretarla. E qui arriva proprio il caos del periodo e delle parole che stanno alterando tutte le relazioni umane. Anche gli amici che fino a un mese fa sembravano così sereni, equipaggiati e organizzati per affrontare una permanenza casalinga, in realtà oggi esprimono parole di disperazione, paura, noia, apatia, claustrofobia, irritazione, chiusura, cattiveria, in qualche caso pure razzismo. Si confondono i fatti, persino avvalorati da numeri, con le opinioni personali, che rischiano di diventare poi giudizi terribili. Giusto l’altro giorno, una professionista delle parole, volendo giustificare la sua necessità di uscire di casa per andare in spiaggia, ha scritto che i morti italiani per coronavirus sono fasulli, che il problema è solo di Milano (mentre questa persona vive nelle Marche) e solo degli anziani nelle RSA. Un’opinione, basata su esigenze personali, che per lei diventa fatto e al contempo giudizio severo. Eppure questa persona conosce le parole, il potere delle parole, (dovrebbe avere) la capacità di vagliare la qualità delle informazioni. Quando ho capito che il problema è dentro sé stessa, e da molto prima del virus, ho preferito il silenzio. Le parole sono troppo deboli in questo caso.
Grazia
Tutto quello che hai detto è vero, ed è normale che sia così, visto che come strumento dell’essere umano, la parola ne riflette i limiti. Quando però dietro le parole c’è la persona giusta, il sentimento giusto, l’idea giusta, sai che meraviglie vengono fuori.
Marina Guarneri
La scelta delle parole… la “mot juste” di Flaubert, se parliamo di narrativa: per me è un imprescindibile caposaldo della buona scrittura. Ma le parole si ponderano sempre, nel linguaggio comune, quando interloquiamo con qualcuno, quante volte quella sbagliata rovina tutto: rapporti, esistenze? Io provo a prestare attenzione, non sempre uso la parola più adeguata, spesso faccio vincere la non moderazione che mi porta a esagerare proprio con le parole.
Tutto affidato al buon uso della parola: è pazzesco, quanta importanza abbia conoscere significato e valore di ognuna di quelle che ci servono.
Grazia
…e rimanere spontanei e naturali nonostante tutto. Una bella sfida.
Rebecca Eriksson
Buon articolo. Un problema che riscontro ance troppo spesso con le parole è il fraintendimento. Come si suol dire, posso considerarmi responsabile di ciò che dico ma non di ciò che l’altro capisce. Molte volte mi sento in errore io e mi ritrovo a riformulare frasi cercando di renderle più accessibili, ma spesso trovo l’interlocutore chiuso nel suo schema mentale.
Grazia
Le interferenze nella comunicazione sono un problema, da entrambe le parti. A volte mi rendo conto di quanto sia vero che ognuno di noi vive in un suo mondo che crede oggettivo, e si scontra con gli altri su questo, mentre quel mondo è personale e riflette il suo mondo interiore, così come succede all’interlocutore. Capirsi davvero è quasi un miracolo.
Ariano Geta
Le parole sono il mezzo per esprimere e, soprattutto, la forma per il contenuto che si vuole esprimere. “Che forma deve avere il mio contenuto?” Questa è la domanda che si dovrebbe porre chi vuole scrivere. Perché il contenuto da solo non basta a raccontarsi, ci vuole un involucro di parole che lo definisca. Personalmente tendo a modificare il linguaggio della mia scrittura proprio in base alla forma che intendo dare al mio contenuto. Insomma, non ho uno stile fisso e inconfondibile. Inoltre credo che comunque che la scrittura sia comunicazione, non sperimentazione, quindi cerco comunque la comprensibilità, pur concedendomi qualche sprazzo creativo.
Riguardo il fatto che le parole possano far anche del male, beh, l’ho scoperto a mie spese come lettore. Vi sono alcuni libri che davvero non prenderei in mano perché la loro lettura, per quanto ridicolo possa sembrare, mi trasmette sensazioni di nausea e tristezza. E non dipende dal contenuto, perché contenuti anche particolarmente “pugno nello stomaco” di altri scrittori li ho letti fino in fondo e magari leggerei ancora qualcosa di quegli autori.
Grazia
Capita così anche a me. Spesso non è la negatività in sé contenuta in un libro a spingermi via; ci sono autori capaci di raccontare atrocità, con cui entro bene in sintonia. Credo che per me, più dello stile, conti la negatività fine a se stessa, priva di un “eppure…”, ma anche lo stile ha il suo peso.