Un intruso a Casalbano

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Racconto

Racconto - La piazza di Casalbano
Foto di Valter Cirillo da Pixabay

Pomeriggio di pioggia senza genitori tra i piedi, zero compiti per domani e la play già calda: il paradiso deve essere così.

Sono giorni che pregusto questo momento. Sul tavolino ho una coca e un sacchetto di patatine, in caso qualche stupido istinto animale arrivi a intralciare il mio pomeriggio perfetto. È tutto pronto.

Mi butto sul divano e aspetto che il gioco si carichi. Questione di un minuto, non di più; ma in questo striminzito minuto la mia mente riesce a perdersi dietro i pensieri portati da questo giorno di calendario.

Ventiquattro dicembre. Sono cinque anni esatti da quando Remo se n’è andato.

Non che io abbia passato questi cinque anni a pensarci su. Ne sono cambiate di cose da allora. Adesso sto in città, per dirne una. Nuova casa, nuova scuola, nuovi amici. Una rivoluzione. Ho compiuto quattordici anni e mi hanno appena regalato il motorino. L’anniversario della partenza di Remo però non lo dimentico.

Certe volte mi guardo intorno mentre attraverso la città per andare a basket oppure cammino tra questi palazzoni con il naso per aria – dieci, quindici piani, roba da scoiattoli, mica da uomini – e mi domando se Remo ci starebbe in un posto così. Non gli piacerebbe, a lui che è abituato al sole e al vento; e di sicuro lui piacerebbe poco a quelli che ci abitano. Magari chiamerebbero la polizia per farlo arrestare, anche se ho visto persone, fuori da scuola o agli angoli delle strade, che fanno cose ben peggiori e poi se ne vanno in giro tranquille come il sole. Perché, in definitiva, cosa faceva Remo di tanto strano?

Arrivò in paese una mattina d’autunno. La nebbia era tanto fitta che sembrava non venisse mai giorno, tanto fitta che camminando non ti vedevi neanche il naso.

Anche così, il suo arrivo non poteva passare inosservato. Non tanto per lui, ma per i cani. Saranno stati sette o otto, forse di più. La barboncina del sindaco cominciò ad abbaiare da strozzarsi al loro passaggio, il labrador del meccanico pure, e gli altri in strada giù in risposta. Così, quando Remo attraversò la piazza del paese, tutti si domandarono cosa fosse quella cagnara. E siccome nel nebbione non si vedeva niente, in tanti uscirono di casa – anche la vedova Mervi, che era in sedia a rotelle – per capire cosa stesse succedendo, e si misero sulle tracce di quel baccano infernale.

Pure io e mia madre ci accodammo a quello strano corteo che andava avanti alla cieca, guidato solo dall’abbaiare dei cani. Mi veniva da ridere, perché la scena ricordava tanto la storia del pifferaio magico che avevo appena letto a scuola, ma mia madre mi diede uno scappellotto sulla testa. «Non c’è niente da ridere» mi disse, e aveva la faccia scura. Per molto tempo mi sono chiesto perché, ma forse adesso l’ho capito. Devo ringraziare quell’idiota di Andrea, che a scuola mi ha dato il benvenuto con un “Torna al paesello, contadino di merda, dove hanno paura anche della loro ombra!” Aveva ragione: a Casalbano la vita era tanto tranquilla che bastava poco a spaventare la gente. Uno come Remo, per esempio, era più che sufficiente.

Quel giorno lo schiamazzo ci trascinò per un bel tratto senza che nessuno riuscisse a vedere chi conduceva la muta di cani invisibili; poi, di colpo, la nebbia si alzò e venne fuori il sole. In pochi secondi ci trovammo tutti sull’argine del fiume: noi, Remo e i suoi cani. Le persone si guardavano in faccia un po’ stranite, come se si fossero appena risvegliate da un sogno, ma subito l’attenzione di tutti si puntò sul nuovo arrivato, tranquillo e sorridente tra i suoi amici a quattro zampe che gli scorrazzavano intorno.

«Chi è?»
«Ma da dove arriva ‘stu chi?»
«Che schifo.»
«Poveretto.»
«Ve’ i cani, che sporchi.» Ne sentivo di tutti i colori, bisbigliate tra le file dei nostri, ma non posso dire che ascoltavo davvero. Ero tutto preso a guardare Remo.

Era vecchio, più di mio padre, magro come un chiodo e con i capelli grigi che gli scendevano sulle spalle in ciuffi unti. Gli occhi azzurri, tanto chiari in quella faccia scura per il sole, avevano una strana espressione – “un po’ da matto”, la definì mia zia più tardi. Se i suoi cani erano sporchi e spelacchiati, lui era peggio. Aveva vestiti di un colore strano, come quelli che certe volte uscivano dalla lavatrice e facevano sacramentare mia madre. In spalla portava una sacca di tela sgonfia e legati sulla schiena aveva dei cartoni arrotolati, di quelli grandi, che contengono i mobili.

La situazione era imbarazzante per gli adulti, si capiva da come muovevano i piedi e guardavano da tutte le parti. Noi bambini, invece, ridacchiavamo come scemi a vedere il nuovo arrivato con le pezze sui pantaloni e una corda come cintura. Non si poteva stare lì in eterno, però, e Remo non aveva fatto niente di male, per cui a un certo punto Gino – il vigile, c’era pure lui – fece sentire la sua voce autorevole.

«Circolare, signori. Non è successo niente. Forza, ognuno al suo lavoro.»

Tutti ce ne tornammo a casa, obbedienti, qualcuno brontolando sulla brutta gente che c’era in giro.

Quel giorno a scuola le lezioni iniziarono in ritardo. Anche i negozi non aprirono all’ora giusta, ma nessuno ebbe niente da ridire: era arrivato Remo. Solo mio padre che lavorava in città e pochi altri dovettero aspettare la cena per farsi raccontare l’evento del giorno.

«Dovevi vederlo, Gaetano, un bruto. Chissà da quanto tempo non si lavava.»
«Un barbone, insomma. Basta che non dia fastidio.»
«Non hai visto i cani!» insorse mia madre. «Quelli mordono, portano malattie, fanno un chiasso che non si dormirà più…»
«Eeeh, tutto in mezza giornata! Aspettiamo prima di fasciarci la testa. Magari è solo un povero cristo che non sapeva dove andare, e domani sarà già partito.»

Ma Remo non partì. Utilizzò invece i cartoni per costruire una specie di baracca sotto il Ponte Grande, dove si sistemò con i suoi cani. Si svegliava all’alba, si lavava – poco – nel fiume e poi cominciava a bussare alle porte dei contadini e dei bottegai della zona alla ricerca di qualche lavoretto da fare. Avrebbe accettato qualunque cosa, credo; era uno che si adattava.

All’inizio le cose gli andarono davvero male. Sorrideva sempre, chiacchierava poco ed era pieno di buona volontà, ma lo stesso sembrava non ci fosse posto per lui. Le prime settimane finì a chiedere l’elemosina sul sagrato della chiesa dopo la messa, perché non c’era un cane che volesse averlo intorno. A proposito, erano proprio i cani uno dei suoi problemi: chi vuoi che si pigli un lavorante con quel branco di cani pulciosi al seguito? Sta di fatto che la gente voleva vederlo sparire. Casalbano doveva tornare com’era sempre stato. Remo era solo un corpo estraneo da espellere, punto.

Per noi bambini, invece, il nuovo arrivato era la vittima ideale. Tirargli sassi, smontargli la baracca e buttare sotto il ponte l’immondizia più puzzolente erano passatempi divertenti in mancanza di meglio. Potevamo fare più o meno di tutto, purché stessimo attenti ai cani. Gli adulti, se anche vedevano, facevano finta di niente.

Stranamente io mi stancai presto. Remo non reagiva come mi aspettavo alle nostre angherie. Invece che lamentarsi o arrabbiarsi, spesso se la rideva, oppure ci rimandava gli oggetti lanciati come se partecipasse al gioco, o magari si metteva a suonare l’armonica sul più bello. Questa cosa, che divertiva tanto i miei amici, a me dava una specie di fastidio allo stomaco. A volte andavo a letto vedendomi la faccia di Remo, con la barba lunga e gli occhi lucidi, un po’ sporgenti, che mi fissavano come se volessero dirmi qualcosa. Ma cosa dovevo fare? O stai nel gruppo o sei fuori. Io scelsi la via di mezzo dei vigliacchi: partecipavo agli scherzi dalla retroguardia, fingendo di divertirmi, senza mai fare del male a Remo. Non ne vado molto orgoglioso, a ripensarci, ma sapevo che gli altri non mi avrebbero dato retta se avessi tentato di fermarli.

Con il passare del tempo la situazione di Remo migliorò un po’. Le prime ad ammorbidirsi furono le donne. L’inverno era vicino e di notte qualche volta gelava. Non era un bel pensiero, quello del vagabondo nella sua baracca di cartone, vestito solo con una camicia e un paio di pantaloni rotti.

«Poveretto» sospirava mia madre, proprio lei che all’inizio lo avrebbe messo al muro. «Come farà a resistere con questo gelo, non lo so. E poi avrà fame; cosa vuoi che ci faccia con quei quattro soldi dell’elemosina? Ernesto dice che compra solo frattaglie per i cani.»

Per un po’ papà si limitò a mugugnare. Dopo una giornata di lavoro, per smuoverlo ci voleva come minimo una rivoluzione; ma alla fine il tormento della mamma compì il miracolo.

«Va bene, va bene! Domani chiedo a Paolo se gli fa fare qualche ora al consorzio. Adesso posso mangiare in pace?»

La mamma rispose con un sorriso radioso. Dopo cena disse che usciva solo per un attimo e sparì senza darci il tempo di dire “bah”; ma io, sapendo per esperienza che papà si sarebbe addormentato all’istante davanti alla tivù, sgusciai fuori e le andai dietro. Seguirla fu facile fino a quando rimase sulla strada, ma quando discese l’argine solo una cosa mi impedì di perderla di vista nel buio: la coperta gialla che portava arrotolata sotto il braccio.

Quando arrivammo alla baracca mi nascosi dietro un ciuffo di canne. Da lì sentivo lo sciacquettio del fiume e vedevo la luce del piccolo fuoco che Remo usava per scaldarsi. I cani iniziarono ad abbaiare e ringhiare. Ero sicuro che mamma se la sarebbe data a gambe, perché ha paura dei cani; invece la sentii chiamare piano: «Remo? Remo?»

Nessuna risposta, ma i cani abbaiarono ancora più forte e alla fine ci fu un movimento tra i cartoni.

«Grazie, signora. Lei è molto gentile.» Remo aveva una voce strana, rauca, come se avesse bevuto, o fosse commosso.
«Oh, ma… lei ha già… beh, buonanotte, buonanotte.»

La mamma se ne venne via tanto in fretta che non feci in tempo a nascondermi bene, e lei quasi inciampò nei miei piedi.

«Ma guarda te… cosa ci fai qui? Chi ti ha dato il permesso di uscire? Va ben, andiamo a casa adesso.»
«Cosa è successo giù?» domandai mentre risalivamo la scarpata, tenendoci per mano.
«Va là, io credevo che avesse freddo e fame…» borbottò lei tra i denti. «Di coperte Remo ne ha più di noi a casa, e quello che aveva nel piatto sembrava spezzatino.»
«Meglio così, no? Almeno non dobbiamo preoccuparci per lui.»

Non dissi altro, anche se avrei potuto raccontarle parecchie cose di Remo. Che gli piaceva camminare nel bosco, per esempio, o che era molto bravo a costruire barchette con i fili d’erba e i pezzetti di legno; oppure che ogni domenica si appostava dietro la chiesa per ascoltare l’organo.

La mia era diventata una specie di fissazione. Spesso seguivo Remo, lo spiavo mentre si lavava o dava da mangiare ai cani o rovistava nella spazzatura. Sono convinto che qualche volta si accorse che lo pedinavo. Come detective ero davvero maldestro. Perché lo facevo? Non lo so nemmeno io. Forse perché non lo capivo. Tra tanta gente normale che avevo intorno, lui mi sembrava una specie di marziano.

Una volta ricordo che lo vidi giocare con uno dei suoi cani, un bastardino bianco e marrone dalle orecchie lunghe. Era incredibile lo sguardo di quel cane. Per lui Remo era più di un principe, più di un dio: era il centro del mondo, lui, con le pezze al culo e i capelli da spaventapasseri.

Il paese non andò molto in là nel dargli una mano. Dopo le coperte e qualche pasto gratis, tutti si erano già messi a posto la coscienza. Grazie a mio padre, però, Remo iniziò a fare qualche ora al consorzio; lasciava i cani nel campo lì vicino e per qualche ora caricava e scaricava sacchi di granaglie, oppure li riempiva sotto lo sguardo sospettoso di Paolo. Erano pochi euro, e sudati, ma gli bastavano per mangiare.

Per il resto, era come se Remo fosse trasparente: la gente non gli rivolgeva quasi mai la parola, ma lui sembrava felice lo stesso e cominciò perfino a cantare. Cantava forte, con una bella voce intonata, di giorno e qualche volta anche di notte, quando c’era la luna. Linda, la maestra, una volta disse che aveva riconosciuto una ballata francese.

Quell’anno il paese si avvicinava come sempre al Natale: lucine colorate, l’albero grande in piazza, il coro della chiesa che si preparava alla messa di mezzanotte; nell’aria l’odore dei biscotti con la cannella. Faceva molto freddo, e anche di giorno la temperatura rimaneva quasi sempre sotto lo zero. Le persone per strada filavano di fretta verso le loro destinazioni, tutte rattrappite nei giubbotti.

In una serata silenziosa come le altre Remo arrivò in paese di gran corsa, gridando come un matto.

«Fuori! Tutti fuori! Fuori!»

I cani gli correvano intorno e guaivano e uggiolavano tutti insieme, mentre lui andava da una parte all’altra della piazza, gesticolando, senza smettere di urlare: «Fuori! Fuori!»

Le luci si accesero dietro le finestre. Molte teste si sporsero a guardare cosa stava succedendo in strada. Quando videro che era Remo se ne tornarono dentro, al caldo.

«Remo l’è dvintè mat» commentò mio padre, risiedendosi a tavola.
«Ma cosa fa?» domandò mia madre, messa in agitazione da tutto quel gridare.
«Niente, è lì che urla “tutti fuori”. Avrà bevuto.»
«Ma li senti i cani? Madonna santa, mi fanno drizzare i capelli in testa!»
«Siediti, va’. Vedrai che fra un po’ gli passa la sbornia e si addormenta appoggiato a un lampione.»

Io che ero rimasto alla finestra, però, vidi che Remo non si stava calmando per niente. Mentre i cani abbaiavano e ululavano si avvicinò a ogni portone per suonare i campanelli con la mano aperta, una, due, tre volte. La gente tornò alle finestre, stavolta di umore meno natalizio.

«Piantala, scemo!»
«Fatela finita, tu e quelle bestiacce!»
«È ora di andare a letto, ubriacone!»

Remo per un attimo smise di gridare e rimase fermo in mezzo alla strada, a guardare le facce rabbiose che lo insultavano.

In quel momento Don Michele uscì dalla chiesa e iniziò la traversata della piazza a testa bassa, stringendosi nella mantella. Remo lo guardò e sorrise, un sorriso strano, come se gli fosse appena venuta un’idea grandiosa; poi si avvicinò al parroco e lo colpì con un bel diretto al mento. Don Michele si afflosciò a terra come un sacco vuoto.

Dalle finestre uscì un eco di urla, bestemmie, insulti mescolati a “ooh” e “aah” di stupore, poi tutti si precipitarono in strada, così com’erano, qualcuno in pantofole e pigiama. Che spettacolo! Io me la godevo un mondo dal mio punto di osservazione in terrazza, tanto più che don Michele non mi era mai stato molto simpatico, ma la curiosità mi fece seguire mio padre e mia madre fuori, al gelo, dove quattro o cinque persone si erano già buttate su Remo e lo menavano di brutto, mentre i cani correvano in cerchio, abbaiando.

Appena fuori della mischia il parroco, seduto per terra, si massaggiava il mento con la faccia di chi non ha capito bene la situazione. Arrivò anche la vedova Mervi con un minuto abbondante di ritardo. Vista la sedia a rotelle, aveva fatto un tempo discreto. A quel punto ci mancava solo qualcuno che facesse l’appello, perché il paese era tutto in piazza.

Di colpo i cani si zittirono. La squadra punitiva rimase per un istante con i pugni sospesi in aria. Remo, in mezzo al gruppo, non si vedeva nemmeno.

In quel momento la terra tremò.

Prima piano, da farci solo barcollare, poi forte. Molto forte. Si sentì un rombo, come se sottoterra un mostro si fosse svegliato e stesse lottando per venire fuori. Tutte le luci si spensero. Qualcuno cadde per terra, molti si abbracciavano, gridavano, piangevano; poi papà e la mamma mi strinsero tra i loro corpi, coprendomi la testa, così non vidi più niente se non i loro vestiti che mi graffiavano la faccia. Ci accovacciammo a terra e rimanemmo lì, ad aspettare che finisse.

La terra continuò a tremare per un’eternità. Solo dopo seppi dal telegiornale che la scossa più forte era durata ventitré secondi e aveva toccato i nove gradi della scala Mercalli.

Quando la terra si fermò, ci guardammo intorno.

L’unica cosa intera era la fontana. La chiesa era sbilenca come se si fosse appoggiata su di un fianco, mentre il campanile aveva perso la punta. Delle case intorno, qualcuna era avvolta da una nube di polvere, altre avevano enormi crepe nei muri. Al centro della piazza si era aperta una crepa nel terreno che arrivava fino all’edicola.

Questo vedemmo alla luce della luna. Le scosse proseguirono per tutta la notte senza che nessuno avesse il coraggio di rientrare in quello che restava della propria casa. Solo la mattina, alla luce del sole, quando già i primi giornalisti filmavano gli edifici crollati, si cominciò a capire la gravità del disastro. Da noi il terremoto aveva fatto ventitré vittime, quasi tutte persone che conoscevo almeno di vista. Non si erano salvate perché vivevano in case vecchie, che erano crollate per prime, oppure erano vecchi loro stessi e non erano riusciti a uscire in tempo; e anche perché abitavano lontane dalla piazza e non avevano sentito l’avvertimento di Remo.

Mentre il paese si riempiva di gente estranea – parenti, soldati, curiosi, persone venute ad aiutare – lo vidi aggirarsi come un fantasma tra i vivi. Aveva mezza faccia gonfia, un occhio nero e un taglio sulla fronte, ma sorrideva. Ne aveva salvate, di persone, con quel pugno al parroco. Noi gli dovevamo la vita, perché nella nostra casa, che dall’esterno sembrava una delle meno danneggiate, era sprofondato il pavimento.

Quelli della radio e della tivù vennero a sapere del gesto di Remo e lo inseguirono per intervistarlo, lui che non parlava mai. Fotografarono anche i suoi cani, che avevano buona parte del merito: erano stati loro, abbaiando e ululando in modo diverso dal solito, a fargli capire che stava per succedere qualcosa di brutto; ma il merito di avere capito come tirare fuori di casa tante persone che non si fidavano di lui, quello era tutto di Remo. Don Michele spiegò che Remo prima di colpirlo gli aveva chiesto scusa.

Sui giornali la vicenda diventò una bella storia con tanto di eroe in prima pagina. Non aveva più importanza che Remo avesse i vestiti stracciati e i capelli unti. La gente del paese iniziò a coccolarlo in tutti i modi per farsi perdonare la diffidenza del passato. Fecero a gara per dargli un lavoro migliore, trovarono una capanna dove farlo stare fino al momento in cui gli avrebbero assegnato una vera casa, con tanto di giardino per tenere i suoi amati cani. Insomma, mentre molti di noi avevano perso tutto, pareva che Remo avesse vinto alla lotteria. Io però ero sicuro che quella popolarità improvvisa non gli piacesse per niente. Lui non era come noi, che badiamo ai soldi, alla tivù, alla macchina, alle vacanze. Lui era diverso. Per questo pensai: “Remo se ne va.” Proprio così, precise parole, come se me lo avesse detto lui in un orecchio.

Cominciai a tenerlo d’occhio più di prima. Mentre ero a casa dei miei zii, dove ci eravamo trasferiti, passavo il tempo a cercare argomenti che lo convincessero a restare, io che non gli avevo mai rivolto la parola; poi tornavo a spiarlo dai cespugli sull’argine del fiume. Non volevo che andasse via.

Intanto la casetta provvisoria di Remo era pronta. Per la vigilia di Natale fu organizzata una bella cerimonia in cui tutti i cittadini sarebbero andati a fargli festa e il sindaco gli avrebbe consegnato una targa dorata di ringraziamento. In paese non si parlava d’altro.

Quel giorno scappai dalla finestra all’alba per andare al Ponte Grande, e lo vidi. Portava arrotolati sulla schiena i cartoni che erano stati la sua casa e stava chiudendo la sacca con le sue poche cose. Tutti i discorsi che mi ero preparato svanirono con il mio fiato nell’aria fredda.

Lui si voltò e mi vide. Sorrise, come sempre, con gli occhi che luccicavano. Mise la sacca in spalla, fischiò per radunare i cani e si incamminò lungo il fiume.

«Remo!» gridai. Soltanto questo riuscii a dire: il suo nome.

Non si voltò indietro; alzò soltanto il braccio destro in segno di saluto. Io rimasi lì, a guardarlo allontanarsi e poi sparire dietro le canne, con i cani che gli correvano intorno. Cantava.

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