Vita da scrittori (e non)

Talento e lavoro

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Vale di più il talento innato oppure l’impegno? Si può diventare davvero bravi in qualcosa senza “esserci portati”? Talento e lavoro sono parenti, oppure semplici conoscenti?

Il dibattito si scatena intorno alle varie forme d’arte, spesso in toni accesi.
Vivere l’apprendimento in un modo o nell’altro dice molto di noi come persone, oltre che come artisti.

Lavoro batte talento due a uno: così la penso, e ne sono tanto convinta da avere scritto un manuale di scrittura; ma c’è chi ha reso l’argomento oggetto di studio, come dimostra un interessante articolo uscito nel 2006 sul sito CNNMoney, di cui vi riporto qualche stralcio.

Ricercatori di vari paesi hanno preso in esame individui che avevano successo in campi quali lo sport, gli scacchi, la musica e gli affari. Si partiva da un presupposto consolidato: in ogni campo delle imprese umane la stragrande maggioranza delle persone apprende all’inizio velocemente, poi più lentamente e infine cessa di imparare.

Alcuni, invece, continuano a migliorare per anni o persino decenni, fino a raggiungere la grandezza. La domanda era: perché? Cosa possiedono queste persone di particolare?

La prima importante conclusione è che nessuno raggiunge livelli di eccellenza senza un duro lavoro. È bello credere che basti scegliere il campo in cui si è più versati per avere successo, ma non è così. […] È ampiamente dimostrato che anche le persone dalle doti più spiccate necessitano di almeno dieci anni di duro lavoro – un fatto tanto riconosciuto da essere definito ‘la regola dei dieci anni’. In alcuni campi, come la musica e la letteratura, il tempo sale a venti anni.

Lavoro, d’accordo; ma non un lavoro qualunque.

I migliori in ogni campo sono coloro che dedicano ore quotidiane a una ‘pratica intenzionale’, intesa come un’attività mirata al miglioramento che tende verso obiettivi alti rispetto al proprio livello di competenza, fornisce riscontri sui risultati e implica un elevato numero di ripetizioni. […]
Nel caso del golf, per fare un esempio, colpire semplicemente un gran numero di palle non è pratica intenzionale; usare un ferro dell’otto per trecento volte con l’obiettivo di portare la palla nel raggio di venti piedi dalla buca l’ottanta per cento delle volte, osservando i risultati e aggiustando il proprio comportamento di conseguenza, per diverse ore ogni giorno, questo sì, è pratica intenzionale.

L’articolo riferisce molti altri aspetti dello studio, riguardanti per esempio i bambini prodigio (che di solito provengono da famiglie altamente addestrative e non sempre raggiungono risultati di eccellenza, tanto che la maggior parte dei migliori sono persone normali, partite senza punti di vantaggio dall’infanzia); oppure i giocatori di scacchi, molti dei quali hanno quozienti d’intelligenza intorno al novanta.

Si analizza poi l’atteggiamento di chi ha successo nella sua attività.

Per molte persone, il lavoro è già duro senza sforzi extra. Quei passi in più sono così faticosi che quasi nessuno li affronta, il che spiega perché i grandi risultati siano così rari. […] Non sappiamo ancora quali fattori inducano certi individui a scegliere la pratica intenzionale piuttosto che quella normale. Alcuni individui risultano più motivati di altri.

In definitiva questi studi non negano l’esistenza del talento, ma lo spiegano in un modo meno mistico e inafferrabile di quello cui siamo abituati e ci forniscono un suggerimento interessante: è principalmente la pratica, e in particolare la pratica “giusta”, focalizzata, a farci migliorare.

Non è semplice applicare questo principio alla scrittura, dove i risultati sono ben poco misurabili, ma può valere la pena di rifletterci su. Anche un piccolo cambiamento di ottica può produrre effetti sorprendenti.

Un commento

  • Enzo Pallotta

    «Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli» (da Risposta dell Alfieri alla lettera di Ranieri de' Calzabigi, 1783).

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