Vita da scrittori (e non)

Quello che scriviamo, da dove arriva?

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Non ditemi che non ve lo siete mai chiesto.

Tutti gli scrittori conoscono la strana sensazione di avere messo sulla pagina qualcosa di strano, conosciuto ma tutto sommato estraneo. Da dove arriva quello che scriviamo?

Nel mio caso la sensazione è tanto più forte quanto più il pezzo è riuscito bene. Rileggo ciò che ho scritto e mi stupisco. Provo sentimenti forti nei confronti dei personaggi, come se li avessi incontrati in carne e ossa nella vita reale. Mi emoziono per ciò che succede. Mi viene da domandarmi: “ma l’ho scritto io?” E nonostante rilegga tante e tante volte nel corso delle mie revisioni, ritorno sempre a stupirmi ed emozionarmi, come un meccanismo inceppato.

So che succede anche a voi. Ma non è strano, a pensarci bene? In fondo sono tutte fantasie partorite dalla nostra testa. Personaggi, vicende, emozioni, dialoghi… non c’è nulla di vero. Abbiamo creato noi la storia, e probabilmente siamo ritornati su ogni paragrafo mille volte per correggerlo e controllarlo. Altro che stupore.

Eppure lo stupore resta, così come la sensazione di assistere in qualche modo alla storia invece di inventarla. Sicuramente buona parte della colpa va al nostro subconscio. Ciò che scriviamo viene all’apparenza dalla nostra testa e dal nostro cuore, ma in realtà al lavoro c’è qualcosa di molto più profondo, cui forse non avremmo mai accesso se la scrittura non ce ne offrisse la chiave. Ma ci sono volte in cui mi sembra che entri in gioco qualcosa di ancora diverso, cui non so dare un nome, ma che riconosco e rispetto.

“La storia esiste già, io sono solo il mezzo che le consente di uscire.”
L’ho sentito dire molte volte, senza rimanerne particolarmente colpita. Rispetto molto ciò che viene espresso da altri ma io personalmente non conosco. So che Shakespeare aveva ragione: ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la mia filosofia. Tuttavia l’idea di questa storia che “cerca una voce”, per così dire, mi sembrava solo un modo diverso di esprimere lo stupore dell’autore nei confronti della sua opera.

Fino a quando non ho incontrato i cosacchi.

Era una domenica pigra e piovigginosa, e mi godevo il tempo libero vagolando in rete senza scopo, cosa che non faccio quasi mai perché mi pare una perdita di tempo. Meglio leggere, meglio scrivere o ascoltare musica… ma quella volta inciampai in un link di genere storico, e cliccai. Non ho idea del perché, visto che io e la storia non siamo mai stati sulla stessa lunghezza d’onda. Lo so, dovrei vergognarmi, ma sono riuscita a uscire dal mio corso scolastico ignorante come una capra, pur avendo sempre riportato buoni voti. Semplicemente tutto ciò che è storico mi sosta nel cervello per il tempo di un caffè, o al massimo di un’interrogazione. Di solito.

Il clic mi fece conoscere la storia dei cosacchi in Friuli durante la seconda guerra mondiale. Ma no, non me la fece conoscere, mi ci fece “entrare” direttamente. Non avevo mai sentito dire che quarantamila cosacchi, cui Hitler aveva promesso una terra, si fossero stabiliti in Carnia prima di essere nuovamente spazzati via dai venti della guerra. Anzi, peggio, dalle trattative a guerra finita. Un tradimento, un massacro. Una delle tante ferite della storia, abbastanza sporca da essere tenuta a lungo sotto silenzio.

Non voglio dilungarmi. Potete approfondire la vicenda storica senza difficoltà, se volete, e potrete leggere il frutto di quel clic quando verrà pubblicato, in primavera. Sta di fatto che mi ritrovai con lo stomaco stretto a pugno e le lacrime che mi scendevano lungo il viso. Così, senza un crescendo emotivo che lo giustificasse. Non ero triste per conto mio, tutt’altro; né sono psicologicamente labile, nel caso vi venisse il dubbio. E poi, sarò anche ignorante in materia storica, ma fino a capire che le guerre producono immani sofferenze ci arrivo.

La storia dei cosacchi in Carnia, al di là della stranezza, non ha caratteristiche tali da renderla “eccezionale”. Però in quel momento mi sono sentita investita di una responsabilità precisa. Era una cosa seria. Per questo, mentre smettevo di piangere e mi asciugavo il naso, ho detto a mio marito e mio figlio: “Questa storia devo raccontarla.”

Era un giuramento, e l’ho mantenuto. (La storia è diventata il racconto La pace di Jacum, di cui parlo QUI – n.d.r.).

Dove vada a parare questo mio lungo discorso non lo so, ma preferisco lasciarlo libero. Certe volte scegliamo, certe volte siamo scelti. Adesso capire il meccanismo non mi sembra più tanto importante.

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