Elogio del superfluo
Qualche tempo fa leggevo l’opinione di una scrittrice americana (di cui non ricordo il nome) sul fatto di mettersi a scrivere al tavolino di un bar. Secondo lei è una cosa da sciocchi, un’inutile ostentazione. Che si pensi a essere seri e si lavori alla propria scrivania, invece di imitare i finti artisti bohemien dei bistrò parigini.
In realtà non ricordo il nome della scrittrice perché mi ha ispirato una fulminea antipatia, non a caso. Da qualche mese a questa parte, infatti, ogni martedì e venerdì mattina, dopo avere accompagnato mio figlio a scuola, trascorro l’ora che manca alla lezione di Pilates in un bar vicino alla palestra.
Me lo sono scelto bene: frequentato ma non troppo, dotato di tavolini all’interno e all’esterno, con la musica di sottofondo a volume umano… ma che dico, è stata una scelta di pancia prima che di testa. Insomma, mi siedo a un tavolino e ci stendo sopra il mio materiale – di solito fogli di appunti, libri, qualche volta il portatile.
Per il brainstorming è una goduria. Il viavai delle persone, la musica, le luci, mi aiutano davvero a sbrigliare i cavalli. Chiamo così la sensazione inebriante di avere la giornata davanti e potermi godere il privilegio di iniziarla come mi piace, una sensazione che mi fa sembrare tutto possibile. In teoria potrei fare le stesse cose a casa mia, ma lì non trovo lo stesso genere di libertà. Sono sicura che molti di voi capiscano cosa intendo.
E adesso arriva questa tizia a dirmi che la mia è una sciocca ostentazione. Sul momento mi indigno: ostentazione, io, quando mai? Poi ci penso su, e mi rendo conto che forse c’è davvero un briciolo di vanità nel rendermi così visibile, nel sentirmi addosso gli sguardi della barista e degli avventori che si domandano cosa diavolo starò scrivendo.
Okay, lo ammetto: un po’ gioco a fare la scrittrice.
Domanda: e allora?
Scrivere dà tanto ma chiede anche tanto: tempo, fantasia, tenacia, concentrazione, strategia nello sfuggire alle sgrinfie della vita quotidiana, libertà di pensiero, resistenza alla pigrizia… la lista potrebbe continuare. Perché non cercare sostegno anche nell’ambiente, negli oggetti, nelle piccole cose?
Allora ben venga il tavolino del bar, se mi aiuta a liberare il cervello e a farmi sentire speciale, e ben venga qualunque cosa capace di creare l’atmosfera giusta, purché non danneggi noi stessi e gli altri.
Ognuno ha le sue preferenze. Ci sono le candele accese, il pupazzetto preferito, le frasi corroboranti appese al muro davanti alla scrivania. Una bella tazza di caffè, oppure una tisana calda. Il vasetto con la kalanchoe. Una foto che amiamo. Le essenze: cannella, neroli, arancio, rosa, salvia o garofano, da usare con il diffusore oppure frizionate sui polsi. Una sciarpa o una felpa che ci fanno sentire bene. Le penne a sfera colorate. Io me ne regalo tre o quattro ogni volta che combino qualcosa di buono. Niente di costoso, solo semplici, allegre, sgargianti penne di plastica. Ah, e poi qualcosa di blu, perché il blu favorisce la creatività.
Tutte stupidaggini? Portate pazienza, siamo artisti…

Grazia Gironella, nata a Bologna, vive ai piedi delle montagne friulane ed è appassionata di natura e discipline orientali. Tra le sue pubblicazioni: La strada che non scegli (biografia); Cercando Goran (Searching for Goran in lingua inglese), Veronica c’è e Tutti gli amori imperfetti (romanzi); Tarja dei lupi e La pace di Jacum (racconti lunghi), e il manuale di scrittura creativa Nel cuore della storia.
Migliorare richiede tempo...
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