Vita da scrittori (e non)

Il rispolvero dell’aspirante scrittore

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È un bene o un male definirsi scrittori?
Vi racconto le mie impressioni.

Un bel post sulle pulizie di primavera? No, non sono proprio il tipo, anche se forse, considerate le mie resistenze ai lavori di casa, qualcosa su cui riflettere ci sarebbe… ma questo non è il luogo giusto per farlo.

In questo periodo sto continuando a scrivere racconti. Mi diverto e sento che mi fa bene.  Sicuramente è in corso un processo di evoluzione e di guarigione, infatti nei racconti che scrivo sono più evidenti del solito i nessi con me e la mia vita. Questo mi ha dato l’opportunità di notare un aspetto della mia vita da superare che corrisponde a un limite sulla pagina: le mie storie sono povere di azione. I personaggi stanno vivendo, o hanno appena vissuto, un incontro o un evento illuminante che ha dato un’impronta nuova alle loro vite, ma non sono ancora entrati nella fase successiva, quella della vita che riprende con presupposti diversi.

La mancanza di azione può non essere un vero problema se il racconto contiene altro, ma lo diventa quando ipotizzo di lavorare su un nuovo romanzo. Voglio stendere una traccia di trama, una semplice sequenza di eventi e… non mi viene in mente niente, zero assoluto. È quasi comico, ma anche frustrante. Non posso raccontare per trecento pagine pensieri e ricordi del protagonista! Esiste il flusso di coscienza, ma spesso diventa un flusso di noia.

L'aspirante scrittore a volte fa sogni di gloria, e si sente come Arjuna prima della battaglia...
Bhagavad Gita: Krishna e Arjuna prima della battaglia

Mi viene un’idea: torno a studiare. I libri sulla scrittura sono lì che mi aspettano sul loro scaffale dedicato. Li ho già letti quasi tutti, ma questo non significa che il contenuto si sia fissato nelle mie ossa; e poi mi serve svegliare i miei personaggi con un bel calcio nel didietro. Almeno un’occhiata ai testi riguardanti la costruzione della trama non può che farmi bene.

Tra gli altri ne trovo uno che non ho ancora letto: Story di Robert McKee, un testo di sceneggiatura molto apprezzato. Ecco da dove partire. Inizio a leggerlo e quasi subito mi impantano: c’è molta sostanza da digerire qui, e alcuni punti, sebbene non nuovi, non sono affatto gradevoli da assimilare. Quindi insisto. Qual è il messaggio?

Mi soffermo in particolare sul contenuto di un paragrafo: a differenza di quanto accadeva nel passato, oggi le persone arrivano all’età adulta avendo immagazzinato centinaia di storie, tratte da favole e fiabe, film e telefilm, videogames e romanzi. Questo fa sì che tutti abbiano un certo grado di dimestichezza con lo sviluppo della storia, e arrivino facilmente alla conclusione di essere in grado di scrivere a loro volta e meritare un posto sul mercato. Per costruire una storia veramente buona, però, occorre qualcosa di più.

Prima reazione: sono i soliti discorsi sul talento e sulla letteratura di qualità in costante declino. Seconda reazione: comunque è vero che nella nostra vita incontriamo una quantità enorme di storie. Terza reazione: sta parlando di me.

Ma certo: libri letti in quantità a partire dalla prima infanzia, film e telefilm eccetera. Ho studiato un bel po’, è vero; questo depone a mio favore. Ma qualcosa mi mette a disagio… ah, ecco: come mai mi sento così bravina all’idea di riprendere a studiare?

Perché mi sento una scrittrice fatta e finita, naturalmente.

Ma non lo sono.

Anche se ho ricevuto tante dimostrazioni di stima, anche se i lettori apprezzano le mie storie, anche se ho vinto concorsi… posso mettere in fila tutti gli “anche se” che voglio, ma dimostrerò soltanto che posso scrivere, niente di più.

Mi viene da pensare alle nostre diatribe sulla resistenza interiore che si prova nel definirsi scrittori, e le vedo in una luce diversa. Quella resistenza che noi attribuiamo sempre alla mancanza di autostima, non nascerà invece dall’intuizione che stiamo attribuendo importanza a qualcosa di irrilevante? In fondo definirmi in un modo o in un altro non cambia la sostanza di ciò che sono, ma può cambiare il mio atteggiamento verso la scrittura, e non necessariamente in meglio.

È più sensato considerarsi bravi scrittori ignorati dall’editoria e vittime della scarsa propensione alla lettura degli italiani, oppure persone che cercano di imparare a poco a poco un’arte difficile?   È la mente razionale che ci spinge a etichettare, suddividere, classificare, delineare confini e fissare paletti. A volte questa sua funzione agisce al nostro servizio; altre volte gioca contro di noi. Ed è proprio la mente razionale che mi vuole inquadrare. “Cosa stai facendo? Sei sicura che valga la pena di impegnarti tanto? Insomma, sei arrivata da qualche parte o no?”   Pensa a fare il tuo lavoro, mente razionale. Io farò il mio. 

Rinuncio alle definizioni. Tanto io sono sempre io, con i miei talenti e i miei limiti, che resteranno tali e quali fino a quando non li avrò superati. Posso proporre le mie storie anche senza inventarmi una legittimazione che non esiste.

Sentirsi insicuri del proprio valore come scrittori non è una patologia da curare, anche se a volte ci comportiamo come se lo fosse. Non possiamo sapere se siamo bravi e quanto; non esistono definizioni universali o scale di misurazione. A posteriori potrà capitarci di dire: questo mio romanzo/racconto non è piaciuto, oppure è piaciuto all’editore X e a tot persone; ma anche così sarà soltanto una valutazione sui risultati pratici, non un bollino di qualità sulla nostra persona.

Tuttavia l’autostima è giusta e utile. Senza autostima si rischia di girare ai minimi delle proprie potenzialità per tutta la vita. Vorrei però basare la mia autostima non su una definizione o su risultati che non dipendono direttamente da me, ma sulle capacità che dimostro sul campo: l’impegno (abbastanza) costante, il coraggio di rimettermi in piedi dopo le delusioni che ho autoprodotto con il mio approccio sbagliato, la mia curiosità, la capacità di meravigliarmi per il mistero insito nel creare qualcosa che prima non esisteva. Queste caratteristiche sono “me”. Il resto è accessorio.

[Celeste e Andrea, nei commenti, mi hanno dato modo di capire che ho scritto una stupidaggine. Che differenza fa se baso la mia autostima sul successo o sul mio impegno, in definitiva? Sono sempre caratteristiche accessorie, anche se preferisco la seconda alla prima. La vera base dell’autostima è nella nostra essenza in quanto esseri umani, che non può essere scalfita dal contingente. Grazie per avermi permesso di aggiustare il tiro!]

Per questo ho rivalutato il concetto di “aspirante scrittore”. Sarà pure un termine bruttino, che a me ricorda le pulizie di casa, ma lo trovo meno dannoso dell’etichetta “scrittore”. Almeno suggerisce lo sforzo di chi cerca di migliorare nella sua arte, anziché lo stato di chi è già arrivato.

Quanto all’agire svincolati dal successo, sentite cosa dice in proposito Krishna ad Arjuna nel Bhagavad Gita, il testo sacro dell’Induismo contenuto nel poema epico del Mahabharata:

Coloro che non sanno distaccarsi dai risultati del loro lavoro sono lontani dal sentiero.

E anche:

Gli illuminati definiscono saggia la persona che nelle sue azioni è libera dall’ansia per i risultati.

Buona scrittura!

P.S.: Serena De Matteis ha reso disponibile per gli iscritti alla sua newsletter una storyboard in bianco, utile per progettare la storia. Se siete interessati, cliccate qui per essere inseriti nella sua mailing list.

30 commenti

  • Celeste Sidoti

    "Sentirsi insicuri del proprio valore come scrittori non è una patologia da curare." Verissimo! Questo è anche un consiglio di psicologia "generale" che ho letto da qualche parte: se il tuo interlocutore pensa di non poter/ migliorare in niente è un pessimo segnale. Mammamia che bella quella parte del Bhagavadgita, l'ho studiato per un esame sull'induismo vedico!
    Non so se è universale, ma più mi diverto mentre scrivo, più scrivo meglio – o magari scrivo male ma ci trovo comunque del bello, e ho abbastanza energia per lavorarci finchè non migliora. Non so se esista uno scrittore fatto e finito, mi sembra una contraddizione in termini.
    Ecco, forse… l'autostima non è qualcosa di cui siamo degni o indegni. Ne diventiamo degni quando capiamo che lo siamo sempre stati.

    • Grazia

      Hai ragione, è così. Il nostro è un valore che prescinde da tutto, ma dobbiamo prima scoprirlo. Il Bhagavad Gita è davvero una lettura affascinante. Temevo che fosse poco comprensibile, invece è alla portata di tutti, anche se devo dire che la mia edizione aveva un commentatore fantastico.

  • Giulia Lù

    Essere liberi dall'ansia per i risultati rende saggi e fa operare in modo equilibrato, però non è facile essere saggi. Io l'unico rimedio che ho trovato è scrivere senza prendermi troppo sul serio, in quel momento penso alla storia e non a chi la sta scrivendo, in quanto a questo continuo a sentirmi poco 'scrittore' e molto 'aspirante'.

    • Grazia

      Non solo essere saggi non è facile, ma… restarlo è difficilissimo! Voglio entrare nell'ordine di idee che una certa dose di battaglia interiore faccia parte di ogni giornata. L'equilibrio, come sottolinea spesso il mio maestro di yoga, è sempre uno stare in bilico, non uno stato acquisito.

  • Maria Teresa Steri

    Le frasi che hai scelto per accompagnare le tue riflessioni sono davvero significative. Hai espresso un pensiero che è anche il mio. Un obiettivo che mi propongo spesso è arrivare a distaccare quello che faccio dai risultati, concentrarmi di più sulla scrittura in sé. Sono consapevole che la mia insicurezza mi paralizza e mi impedisce di dare il meglio proprio perché è figlia di questo attaccamento ai risultati o anche alle opinioni esterne. Mi sembra una battaglia senza fine. La tua capacità di rialzarti e di metterti in discussioni comunque sono qualità molto belle, da non sottovalutare!

    • Grazia

      Tra il cadere è il rialzarmi a volte passa un bel po' di tempo… comunque è davvero una battaglia senza fine quella per mantenersi centrati e non cadere nei vari trabocchetti preparati da noi stessi e dalla realtà circostante. Va considerato uno sforzo quotidiano, da mettere a regime, secondo me.

  • Andrea Di Lauro

    Buona vita. È la prima volta che commento,ed è anche normale: ho scoperto il blog da poco.
    Mi piace molto la sincerità che traspare dalla tua scrittura; questa è una qualità che si sta perdendo in ogni arte e in ogni gesto.
    La mia attenzione è stata attirata dal concetto di autostima. Riportando l'esempio a me più vicino (il mio), posso dire che, se ci si sente inadeguati in un determinato settore, questo non deve necessariamente andare a scalfire le fondamenta dell'autostima. Ad esempio, io non mi considero uno scrittore, mi servo solo della scrittura perché ho qualcosa da dire. Uno scrittore, secondo il mio parere, è un individuo che si destreggia nelle parole facilmente, come un tennista e la sua racchetta,come l'acqua e il nuotatore che ci mulina dentro. Ed io non mi sento affatto bravo, me la cavo, ma conosco le mie lacune. Questo però non incide minimamente sulla mia autostima perché so chi sono (o almeno credo). Secondo me una persona che conosce se stessa e che quindi non si identifica in nessuna etichetta non soffrirà mai di autostima.
    Dall'altro lato ci sono i benefici concreti del percepirsi come degli scrittori, ma questo è un gioco che si può fare senza proiettare la propria essenza nel concetto, nel "vestito" di scrittore.
    Volevo scrivere due righe ma come al solito…

    • Grazia

      Benvenuto, Andrea!
      Quello che dici è vero; anzi, mi rendo conto di avere scritto una stupidaggine: non ha senso nemmeno basare la propria autostima sull'intraprendenza, o sul fatto di essere capaci di impegno. Sono comunque caratteristiche che possono cambiare nel tempo e secondo le circostanze. A non cambiare è il nostro valore intrinseco di esseri umani. Quella è la vera base dell'autostima. E io vado a fare una piccola modifica al post.

  • Daniele

    Avere dimestichezza con lo sviluppo delle storie non implica saperle scrivere. E neanche io mi definisco scrittore, perché non c'è nessun romanzo a mio nome nelle librerie. C'è tempo per quell'etichetta. Adesso è il tempo del lavoro, della fatica e della scrittura.

  • Cristina M. Cavaliere

    Bisognerebbe fare come i bambini quando disegnano, e osservare come si divertono a creare il loro mondo con matite colorate e pennelli. Nessuna maestra sana di mente pretenderebbe da loro che siano subito dei piccoli Michelangelo. Almeno all'inizio, e prima che vengano rovinati dalla competizione, nessuna ansia da prestazione, ma solo la gioia nell'esprimersi e la soddisfazione per i risultati. Per riprendere le osservazioni dei commentatori precedenti, continuerei a volermi bene anche se non scrivessi più una sola riga. Scrivere è solo una sfaccettatura di quello che sono, per importante che sia.

    • Grazia

      Sei sempre una maestra di equilibrio, Cristina! In effetti è triste pensare di restare attaccata alla scrittura come una cozza allo scoglio. D'altra parte quando dicevo che avrei potuto smettere di scrivere senza problemi, in caso non avessi visto risultati, non la raccontavo giusta: quando non scrivo è come se perdessi una parte delle mie energie.

  • Francesca

    Ciao da una che davvero è "aspirante"! Quando ho letto il titolo, non credevo che il termine si riferisse a te! Comunque, in effetti, se smettiamo di considerare l'espressione"aspirante scrittore" una parolaccia, può essere uno stimolo!

  • Elizabeth Sunday

    Bellissime citazioni! Ciò che hai scritto si discosta dal mio pensiero. Tu pensa: io sono anche un'insegnate di inglese, e non sono affatto arrivata né perfetta. Però sono un'insegnate e quando me lo chiedono dico che lo sono. Non mi vergogno mica, e non penserei minimamente a dire "Sono un'aspirante insegnante". Lo stesso dicasi per il sentirsi e l'essere scrittrice o scrittore. Io non amo le etichette, e preferisco dire che di mestiere sono libera. Però ecco, definirsi tale non credo significhi mancare di umiltà e sentirsi arrivati. Significa sentirsi scrittori, creativi e liberi di essere.
    Spero di non aver interpretato male il tu pensiero
    Ti abbraccio!

    • Grazia

      Secondo me, come sempre, dipende. Se si adotta l'etichetta senza fare collegamenti dannosi il problema non c'è, ed è il tuo caso, immagino. Se però ti crei in testa – magari senza esserne cosciente al cento per cento – un link del tipo "mi sento scrittore, quindi cerco di comportarmi da professionista, allora vedrò dei risultati, se non li vedo sono frustrato", allora l'etichetta diventa una zavorra. Essere liberi, a mio parere, non significa necessariamente rimanere intoccati da questo tipo di problematiche; anche da liberi, si è sempre esseri umani, con tutto il corredo del caso. Immagino che la tua vita movimentata ti renda meno soggetta a certe manifestazioni un po' ossessive. Ricambio l'abbraccio!

    • Elizabeth Sunday

      Sì, in effetti… comunque concordo con ciò che hai espresso qui. Buona giornata Grazia! Qui a Torino sole finalmente

  • PattyOnTheRollercoaster

    Prima cosa, a tratti questo post mi ha fatta davvero ridere! Per il resto del tempo mi ha fatta riflettere.
    Io ad esempio mi vedo come aspirante scrittrice (che purtroppo nulla ha a che vedere con i mestieri di casa, altrimenti non mi starei torturando a quest'ora con il pensiero di dover spazzare), amici e parenti benevoli mi definisco scrittrice. Sono sempre imbarazzata nell'accettare il loro entusiasmo, perché mi sembra di non esserne all'altezza, perché appunto i risultati non sono poi così tanti.
    Ho sempre pensato che la cosa più importante, nella vita, è stare bene con sé stessi e le definizioni degli altri sono qualcosa che non mi riguarda, riguarda quegli altri, perché io so chi sono e cosa voglio. Purtroppo è difficile avere sempre questa filosofia e raggiungere dei risultati è comunque piacevole e appagante e credo sia importante non per il risultato in sé ma per sentirsi bene con sé stessi. Forse però dovremmo considerare questi risultati in base al nostro impegno: mi sono impegnata e ho conseguito dei risultati, la prossima volta mi impegnerò di più, applicherò quello che ho imparato dalla precedente esperienza e i risultati prima o poi arriveranno e magari saranno anche più grandi.
    Io continuo a sentirmi aspirante, pur non aspirando i miei pavimenti a intervalli regolari, ma di certo è utile pensare che per amici e parenti sono già a metà dell'opera e, guardandomi indietro, ho tanto di cui essere orgogliosa. Devo solo ricordarmelo, soprattutto quando dubito di me stessa.
    Bellissimo post, complimenti

    • Grazia

      Grazie! L'ideale sarebbe riuscire sempre a sfruttare gli stimoli positivi senza subirne gli effetti collaterali. Non è un'impresa impossibile, per fortuna.

  • Gabriele Pavan

    Ricordo una frase letta in un libro di Wayne Walter Dyer: quando fai qualcosa produci risultati, e questi sono indipendenti dal tuo valore come persona.
    A suo tempo questa affermazione mi ha aperto ( un po') gli occhi. Era talmente ovvia e al tempo stesso talmente lontana dal modo in cui ti hanno insegnato a vedere le cose…
    Per il resto: potrebbe andar bene qualcosa come "Aspirante scrittore in via di miglioramento ignorato da pubblico e critica"?

    • Grazia

      Ottima definizione! Credo che l'importante sia riflettere sul nesso (labile) tra impegno e risultati in modo da non perdere la bussola. Dopo, ogni definizione va bene!

  • Marina Guarneri

    "Anche se ho ricevuto tante dimostrazioni di stima, anche se i lettori apprezzano le mie storie, anche se ho vinto concorsi… posso mettere in fila tutti gli "anche se" che voglio, ma dimostrerò soltanto che posso scrivere, niente di più."
    Ho trascritto la tua frase perché mi appartiene più di quanto immagini: dimostro solo che posso scrivere, che so mettere in fila due frasi di senso compiuto e magari allargarmi anche sul buon uso della grammatica e della lingua italiana, ma sento che mi manca molto altro, quel molto altro che farebbe la vera differenza. Capisco che non è un traguardo raggiungibile, ma come nella precisazione fatta da Andrea, non sto minando la mia autostima, sto solo con serenità accettando alcuni miei limiti in questo campo.

    • Grazia

      I limiti si cerca di superarli, ma intanto bisogna almeno in parte conviverci. Però penso che il confine si sposti, anche se lentamente, se si continua a scrivere; non credo che esista un muro invalicabile, se non quello nato dal nostro smettere di impegnarci per dedicarci ad altro (che non è detto sia un male).

  • Chiara Solerio

    Arrivo a commentare questo post con un po' di ritardo, perché ero in fase post-operatoria: chiedo scusa. Sono d'accordo con la rinuncia a ogni etichetta, perché mi sono resa conto che esse definiscono un ruolo sociale, e non l'essenza stessa dello scrivere. Quindi, do ragione a Celeste e Andrea. In particolare, quest'ultimo centra un punto fondamentale: il riuscire o meno in qualcosa non serve a definire il valore dell'individuo. Io stessa mi sono fatta fregare da questo presupposto, sono finita anche in analisi, perché sai che ho qualche problemino con il mio attuale lavoro… problema risolto con la consapevolezza che questo non è il mio lavoro. Punto.

    • Grazia

      Già saperlo è un punto di partenza per la fase successiva, che non dubito affronterai con la tua tipica energia. (Ritardo nel commentare? Mi è sconosciuto… ;))

  • Monica

    Io mi definisco un'autrice. Autrice ha una bella connotazione, è in stretta relazione con lo scrivere anche se non significa necessariamente essere uno scrittore. Scrittrice, mi sembra troppo, ma anche aspirante, a dirla tutta. Perché quando scrivi e pubblichi, in special modo se hai una casa editrice alle spalle, aspirante non funziona più, credo.
    Autrice. Autrice mi piace. Sta a metà tra le due, e spero che tenda verso scrittrice.

    • Grazia

      "Autrice" è anche incontrovertibile: se scrivi qualcosa di compiuto (non necessariamente pubblicato), ecco che lo sei. Comunque non avevo nostalgia dell'etichetta di aspirante, ma piuttosto dell'atteggiamento di chi impara senza pensare di avere raggiunto un livello o l'altro. Io in teoria mi sento molto umile rispetto all'arte, ma capisco che ho (avevo) delle aspettative che volevo vedere soddisfatte. A essere umili in questo modo ci vuole poco!

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